Antonio
Vassallo fotografo testimone della strage di Capaci: “Ero con un sordo ed
abbiamo sentito la stessa paura”
Capaci, un comune in
provincia di Palermo, poco più di undicimila abitanti deve il suo nome
all’evocazione del concetto, ca’paci, sta per luogo di pace, e non è solo
un’assonanza volutamente imposta dalla musicalità della lingua, anche dalla
storia che racconta.
Un segnale sulla
cartellonistica autostradale, la scritta Palermo in direzione diritta e Capaci
in una svolta a destra, un’immagine fotografata nella mente di milioni di
persone riconducibile al giorno della tragedia, il 23 maggio 1992 quando
sull’Autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci, la mafia uccise il
giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie magistrato Francesca Morvillo e
tre agenti di scorta giovanissimi Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro.
Un luogo su cui è piovuto un
silenzio allarmante e disarmante per tanti giorni, anni, mesi e infine attimi.
Sì attimi, quelli di un
flash, quelli degli scatti, quelli di un silenzio rubato, un silenzio sospeso,
un silenzio più eloquente di mille altri pensieri, lo stesso silenzio che è
voce muta perché è un silenzio difficile da interpretare.
Eppure a leggere Capaci a
primo colpo, viene da pensare a uomini capaci, e siamo uomini in tanti modi,
siamo capaci di uccidere, e siamo capaci di salvare, di ricordare o di
dimenticare. Siamo uomini nella stessa frazione di secondi in cui si punta una
macchina fotografica che con uno scatto immortala un silenzio, e uomini, che
con tonnellate di tritolo, facciamo un boato per decretare il silenzio assoluto
di cinque vite, e siamo lì sulla stessa strada, in quel tratto in cui avviene
un intreccio di bagagli, di memorie, di vissuti, di gioventù e saggezza, di giustizia
e libertà, di verità e sgomento, di coraggio o paura.
Uomini che rivendicano il
luogo di una strage: e così per “buona pace” dell’Isola delle Femmine, comune
adiacente in cui realmente la strage avvenne, siamo abituati a collegare Capaci
al silenzio fragoroso della morte: la morte di uomini capaci.
Forse questa interpretazione
ci restituisce anche il senso di una memoria
scomoda a tanti, evidente come la verità, quel giorno sono morti uomini
capaci che anche la pace di Dio ha accolto in sé per chi crede, che anche la
rabbia più dolce può forse lenire, in virtù di una coincidenza folle, o
segreta, forse codice di una verità assoluta, perché evidente.
A scrivere la “Luce” delle
persone morte, perché fotografare è scrivere la luce, ci ha pensato quel giorno
“un segno”, un cartello autostradale, verde come la speranza: è un caso, un
destino, non lo so, mi piace pensare che passare sotto le due parole Palermo
Capaci su quell’autostrada rappresenti un codice espressivo: a Palermo ci sono
uomini capaci di sensibilità, uomini testimonianze, uomini veri.
E così m’imbatto in questa
storia, gravida di silenzi e di emozioni: Antonio Vassallo e Michelangelo Di Liberto.
Il primo è udente il secondo è sordo.
Si trovano alle 17:58, ora
della strage di Capaci, insieme a condividere un passaggio di mani, quel breve
viaggio di un secondo che compie il foglio 50X70, un ritratto dalle mani di uno
nelle mani dell’altro. Sì perché Michelangelo è un mimo, mago e bravo caricaturista
e quel giorno è proprio lì, a casa di Antonio Vassallo, professione fotografo,
a consegnargli una visione interpretata della sua persona.
Solo il tempo di realizzare
che nel quadro Antonio è stato ritratto come una persona con sei braccia,
l’insieme di tutte le attività che svolgeva, a ventiquattro anni appena, e che
nello sguardo di Michelangelo si traducevano in estensioni di volontà. solo
questo tempo e…Bum! Il boato.
A quel punto i ruoli si
invertono, le orecchie di Antonio diventano gli occhi di Michelangelo che del
rumore avverte la vibrazione e, impaurito lo sguardo, si colma di
interrogativi. Antonio non ha tempo per rassicurare, ammicca la verità con i
gesti che seguono, una pacca sulle spalle, ringrazia e posa il disegno, prende
la macchina fotografica e corre in direzione del cementificio da dove proviene
il boato…Percorre il tratto immergendosi in un nuovo silenzio arriva sull’A29,
su quel che resta di una strada riconducibile al concetto di percorribilità e
si imbatte in un altro silenzio. – Anche la macchina fotografica diventa
silenziosa…Guardo il dondolìo del volto di Giovanni Falcone, lo interpreto a
modo mio come se dicesse “figghi e buttana ce l’avete fatta” e mi ritrovo
puntata una mitragliatrice e scappò di nuovo, vinco la morte.
Angelo Corbo, l’agente di scorta
di Falcone sceso dall’auto, mi vede andargli incontro con questa cosa nera che
era la macchina fotografica e uomo verso uomo, ragazzi entrambi, siamo
coetanei, ventiquattro anni nell’equivoco sottile di un gesto di non ritorno.
Non ricordo cosa urla,
scappo e basta.
Eppure quel giorno, in quello spazio di centimetri, lui non
preme il grilletto e io non muoio, nasce un’amicizia silenziosa. Lo ritrovo
dopo diciassette anni, ad un incontro sulla Memoria a Palermo i ragazzi della
scorta di Falcone, i quattro sopravvissuti, di cui nessuno parla…
Mi avvicino,
questa volta non impaurito e chiedo chi di loro quel giorno mi ha puntato la
mitragliatrice e Angelo mi dice sono io, chiama subito la moglie e la figlia e
mi presenta come la persona di cui ha parlato in tutti quegli anni, senza
sapere chi fossi, perché fossi lì, e realizza di aver salvato un innocente e di
aver salvato se stesso, perché il confine è molto labile…Siamo l’uno lo
specchio dell’altro. Io sono vivo e lui non è un assassino, ma bastava un
movimento diverso, premere il grilletto e non sarei qui a parlare.-
Antonio Vassallo irrompe
così nel suo restituirmi testimonianza, la stessa per anni negata sia ai sordi,
che agli udenti in questo caso. Dopo lo spavento Antonio torna a fotografare ma
di quelle foto non può che raccontare…- Un silenzio rubato, è quello che mi è
accaduto, mi si avvicinano per prendermi la macchina fotografica, sono uomini in
borghese, cerco di difenderla perché fotografo registrato alla Questura, allora
era così, non ci è stato nulla da fare…Così vado di nuovo a studio e ritorno,
faccio altri scatti, e poi attendo.
Sì perché per me la cosa più
naturale da pensare è che mi fossero state tolte perché d’aiuto alle indagini,
in realtà le foto a Caltanissetta non arrivano lo stesso, mi si diceva che
erano state dimenticate nella divisa di un agente e così…Passano anni di
silenzio. Anni in cui io da ragazzo mi faccio uomo, metto su famiglia, continuo
la mia attività di ambientalista, di impegno civile, di accoglienza, di volontariato
internazionale, di politica, racconto
questa storia, e pare non interessi a nessuno.
Ascoltare per gli adulti non
è sentire la verità, ecco perché oggi mi rivolgo ai bambini: dico neanche in un
cartone animato succede quello che mi è successo nella realtà?!
Sono testimone ma loro sono
sordi.
Eppure Michelangelo mi
seguiva, ovunque, era affascinato da quello che vedeva e riuscivamo a
comunicare con gli occhi tutti i nostri silenzi -.
E a questo punto mi viene
naturale chiedere ad Antonio cosa sia il silenzio oggi, se mai fosse possibile
averne una sola definizione, ora che nella sua vita si sono accumulati silenzi
e silenzi, alcuni ancora tutti da decifrare, come tiene a ricordare a proposito
dei quattro agenti della scorta sopravvissuti di cui nessuno parla: - Il
silenzio, a volte, è anche una necessità. –
Di questa necessità,
leggendo tra le righe, oggi mi sento arricchita…Grazie Antonio Vassallo.
Nadia
Lisanti
25 Marzo 2016 su loralegale.eu
Capaci morirono il 23 Maggio del 1992 sull'Autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci (ma in territorio di Isola delle Femmine, un comune adiacente), una carica di tritolo posta in un tunnel che passa sotto l'asfalto fu
fatta esplodere dalla mafia uccise il giudice antimafia Giovanni
Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, anch'ella magistrato, e tre agenti della scorta, Vito
Schifani, Rocco
Dicillo, Antonio
Montinaro.
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